martedì 10 maggio 2011

Tai ji san shou

Radici salde, rami floridi

L’efficacia della flessibilità torsionale negli insegnamenti di Huang Tai Ji

di Wang Yugyal


Non pochi maestri cinesi di arti marziali, anche rinomati, insegnano queste discipline più per soldi e prestigio personale, che per amore verso di esse. È comunque un atteggiamento che rientra in due delle tendenze sociali più tipiche del popolo cinese: da una parte la spiccata vocazione commerciale, dall’altra l’importanza sviscerata, quasi ossessiva, attribuita alla “faccia” (mian zi 面子), ovvero il prestigio e la considerazione dei pari.
Le conseguenze, però, sono nefaste per la qualità della trasmissione didattica delle arti marziali e quindi per un corretta eredità di queste discipline avite.
Ecco allora che fa molto piacere conoscere invece un maestro che è pieno di voglia di insegnare, tramandare correttamente il prezioso stile che conosce, l’Hong shi tai ji quan 洪式太極拳 (“metodo Hong di pugilato della suprema polarità”), e non è mosso dalla brama di soldi o prestigio, ma solo da grande passione per la sua arte e da una stima accorata per l’insegnante che gliel’ha trasmessa: il sempre più rinomato Li Bao Ting 李寶廷, del quale è stato il quinto discepolo su oltre cinquanta a essere accolto con la cerimonia di iniziazione bai shi 拜師1.
Si chiama voglia di condividere, di dividere con altri i benefici che egli ha tratto dalla pratica. Si chiama dunque generosità. Sì, direi che Huang Tai Ji 黃太極 è un uomo generoso, oltre che onesto.
“Il tai ji quan è un universo che esprime pienamente la profondità della vetusta cultura cinese; è un viaggio alla scoperta della verità delle cose che dura tutta la vita. Che durerà tutta la mia vita”, racconta con fervore. Gli sembra impossibile che una persona non si innamori del tai ji, una volta entrata in contatto con esso. Il suo desiderio è far conoscere anche agli italiani questa creazione mirabile della cultura cinese che fa innamorare di sé la gente. È quanto spiega agli anziani genitori (peraltro dediti anch’essi al tai ji ogni mattina) e alla moglie, quando lo esortano a tornare in Cina, dove un lavoro remunerativo per lui c’è.
A volte Huang è stanco, perché insegna da ore dopo aver terminato il lavoro quotidiano di giornalista; eppure, se qualcuno gli chiede a che ora finirà la lezione, la sua risposta è disarmante: “Se ti fa piacere imparare, sono contento di rimanere ancora un po’”.
Ma al di là delle qualità umane, il tai ji quan è già diffusissimo nel mondo, che bisogno c’è di un suo ennesimo divulgatore? “Una strada senza ostacoli è probabile non porti a nulla”, recita un proverbio, mentre un altro insegna che “Le onde non arriverebbero così in alto senza gli scogli”. Il tai ji quan si è diffuso tanto perché è stato privato arbitrariamente di scogli e ostacoli. Invece si tratta di una disciplina estremamente difficile da padroneggiare, dacché richiede una trasformazione e un uso profondi del corpo. Se infatti tutte le arti marziali cinesi attuano meticolosamente le regole della biomeccanica2, il tai ji quan ottimizza questa pragmatica, e la scuola Hong la porta a raffinatezza estrema.
È chiaro che cambiamenti tanto massicci si ottengono solo con una dedizione lunga e laboriosa, cioè con quello che i cinesi chiamano gong fu, la stessa parola che è entrata nel linguaggio comune per definire i loro sistemi tradizionali di combattimento.
Questa verità l’hanno capita in molti; tuttavia restano pochissimi coloro i quali, al di là dei vari millantamenti, sono in grado di raggiungere un livello alto nell’arte marziale del tai ji quan. Sedicenti esperti ne hanno tentata di ogni, compreso l’errore altrettanto grosso e snaturante che consiste nel cercare di proporre questo sistema con prassi e concetti didattici occidentali, magari ammantati di scientismo.
Benché la soluzione del problema rimanga una sola - trovare un bravo maestro e allenarsi duramente sotto il suo occhio vigile per molti anni -, anche la storia contemporanea ha visto all’opera dei geni rari in grado di trovare mezzi d’insegnamento più efficaci. Uno di loro si chiamava Hong Jun Sheng 洪均生 (1907-1996), e la scuola di tai ji quan che ha fondato reca già nel nome quello che è il suo scopo primario: “metodo di pugilato pratico dello stile Chen di tai ji quan” (Chen shi tai ji quan shi yong quan fa 陳式太拳實用).
Si può obiettare che un titolo del genere sembra pleonastico, dal momento che il gong fu non può che essere pratico; invece l’acuto Hong vedeva che già al suo tempo questa qualità in molti casi mancava. Eppure non aveva inventato niente di nuovo: “Ho studiato il tai ji quan col maestro Chen Fa Ke 陈发科 dal 1930 al 1944, quando mi sono trasferito nella città di Jinan 济南, nella provincia dello Shandong 山东. Nel 1956 arrivai di nuovo a Beijing 北京 e cercai l’istruzione del maestro Chen. Lui mi disse che nella sequenza del tai ji quan non c’era un solo movimento ‘vuoto’, che tutti avevano applicazioni pratiche. Ogni giorno sceglieva un movimento della sequenza, spiegandoli uno per uno, ed entrambi provavamo i movimenti sull’altro. Lui discuteva non solo l’applicazione (yong fa 用法), ma anche la contromossa (jie fa 解法3)”, racconta Hong nel suo articolo “Principi e metodi scientifici dello stile Chen di pugilato della suprema polarità”.
Per lui che era lo studente con l’apprendistato più lungo del famoso Chen (1887-1957), doveva essere triste constatare il degrado in cui versava la sua amata disciplina. Pensò allora di trasmettere fedelmente quello che aveva imparato da tale precettore, ma anche di usare la sua spiccata intelligenza e la sua profonda cultura per escogitare una modalità d’insegnamento massimamente fruttifera: ogni studente, fin dal primo giorno di lezione, deve comprendere lo scopo della singola tecnica, sperimentarlo fattivamente mettendolo alla prova. Hong Jun Sheng conosceva la raccomandazione contenuta nell’illuminante “Canzone delle tredici posture” attribuita a Wang Zong Yue 王宗嶽: “Se non cercate attentamente il significato, sprecherete solo sforzi e sospirerete”. Come la stella polare che brilla in cielo guidando i marinai, il fine di un movimento deve indirizzare il praticante nella sua azione corretta.
Hong si convinse che per formare dei lottatori di tai ji quan, l’insegnamento doveva ritornare ai tempi in cui nella pratica non erano divisi fa e gong , vale a dire lo studio delle tecniche – in primo luogo contenute nelle sequenze lunghe (lu ) – e la loro messa in atto nel condizionamento del corpo a usarle.
Il risultato è una spiccata vocazione del metodo all’efficienza in combattimento, con gli esperti formati in esso che riportano l’antico stile Chen alle glorie del passato.
A un occhio inesperto, tuttavia, le applicazioni con cui vengono continuamente messe alla prova in coppia le tecniche del tai ji quan Chen possono sembrare fantasiose, ma bisogna capire che si tratta per l’appunto di test fisici. L’esempio più evidente sono le molte leve articolari provate e riprovate in questi esercizi: perché riescano alla perfezione, occorre saper emettere una forza a spirale (luo xuan 螺旋) che sta alla base della potenza del tai ji quan, fino a diventarne l’essenza. Padroneggiata quella, i colpi saranno devastanti, e penetreranno nei tessuti.
La modalità d’elezione per sviluppare questo tipo di forza assai raffinata (jin ) è la pratica continua di esercizi fondamentali (ji ben gong 基本功) poi inseriti nelle sequenze dello stile Chen di tai ji quan. Questo è il crogiuolo nel quale viene molato il corpo del praticante, sino a farne il prototipo ottimale del combattente, sano e vigoroso. L’allievo continua a eseguire movimenti lenti e continui lungo traiettorie circolari, e un giorno si trova come d’incanto a sprigionare un’eccezionale forza rapida, impulsiva. È un processo che ha qualcosa di magico e senz’altro meravigliante, come un’illuminazione subitanea (wu ) durante la meditazione, una guarigione inaspettata dopo laboriosa terapia o una soluzione a lungo ricercata che balena improvvisamente dal subconscio.
Comunque, nel metodo Hong non si bada molto a distinguere artificiosamente le tattiche di lotta e di percussione, e questo non fa che testimoniare la vetustà dello stile Chen, perché al tempo in cui fu creato, i guerrieri si affrontavano sui campi di battaglia rivestiti di armature poco minacciate dai generici colpi a mani nude.
A questo punto l’iter di ascesa dei nebulosi picchi del tai ji quan non è certo finito: i movimenti diventano sempre più piccoli man mano che si riesce a integrare l’azione coordinata e armonica di tutto il corpo, col risultato ultimo di un grande effetto con un piccolo sforzo. Il maestro Huang esprime il concetto tramite l’esortazione classica “Si liang bo qian jin 四兩撥千斤: “Quattro once spostano mille libbre”4.
Questo è un altro valore aggiunto della scuola Hong: assenza di stucchevoli movimenti fioriti che si vedono talvolta in esponenti dello stile Chen, lasciando presente solo l’essenza; la roccia viene scolpita fino a estrarne la statua del guerriero ideale. Se si vedono Hong Jun Sheng, Li Bao Ting, Huang Tai Ji eseguire il lu, può sembrare scarno; in realtà è colmo di funzionali meccaniche interne (da cui l’etichetta di “famiglia interna”, nei jia 内家, per quei sistemi di arti marziali cinesi di cui il tai ji quan è il più famoso) e per questo meno visibili.
Allo stesso modo, Huang sembra muovere appena il braccio, eppure la sua cavia umana vola indietro con la sensazione che un duro colpo le sia penetrato nell’addome e abbia trafitto le viscere fino a esplodere contro le vertebre. Narra egli che in vecchiaia Hong Jun Sheng stava seduto e invitava le persone ad afferrargli i polsi, dopodiché li scagliava indietro con un movimento infinitesimale dell’avambraccio. Per farlo, doveva possedere una sensibilità spiccatissima nei confronti dei vettori che gli altri cercavano di applicare al suo corpo; nel gergo cinese si definisce ting jin 聽勁, “ascoltare la forza”5, una delle capacità più essenziali delle strategie combattive del tai ji quan: Hong sosteneva perfino che, diversamente da altri stili, nel “pugilato della suprema polarità” questa percezione delle forze era più importante della loro emissione. Il maestro Huang parla di tiao jian fan she 條件反射, “riflessi condizionati”, a un livello altissimo. Come di altri grandi esperti di arti marziali, si racconta addirittura che Hong riuscisse a percepire l’avvicinarsi di qualcuno pur senza vederlo o udirlo.
Il corpo umano è un sistema fisico, e in quanto tale è sottoposto a una serie di forze, interne a sé o esercitate dall’ambiente; si pensi per esempio all’influsso della gravità che ci accompagna sempre. Il praticante di arti marziali deve imparare a percepire e a gestire sottilmente tali forze, che nell’arte marziale comprendono ovviamente le iniziative dell’avversario. Confrontarsi anche con questi impulsi fino ad avere la meglio su di essi è il passo successivo del programma di studi che il combattente segue.
L’abilità del gong significa infatti un’agevole sottomissione dell’opponente alla propria volontà. Per farlo, l’esperto usa appunto il tatto6 per sentire la direzione, il verso e l’intensità della forza altrui, la “comprende” (dong ), la neutralizza (hua )7 e invia (fa ) la propria nell’avversario, esprimendola attraverso le varie tecniche delle arti marziali. Agendo sulle due componenti di una forza, il praticante ne sposta il punto di applicazione (li dian 力點), seguendo il vecchio precetto “Yin jin luo kong 因進落空: “Indurre ad avanzare e guidare nel vuoto” (il complemento oggetto sottinteso è l’avversario). Poi si indirizza l’energia globale e coordinata (jin ) del proprio corpo verso il centro di massa (zhong xin 重心) dell’avversario.
Huang Tai Ji, che conosce bene i principi della dinamica, usa spesso il composto hua jie 化解, quando spiega questo trasferimento di energia da un sistema a un altro, ovvero un lavoro, che è esattamente il significato della parola cinese gong in fisica. Chi è più bravo in questo lavoro, vince.
Per spiegare concetti tanto fondamentali, il maestro è prodigo di consigli desunti dalla saggezza levantina o entrati nella teoria storica del tai ji quan: “Per spostare il punto d’applicazione della forza avversaria, ruoto (zhuan ) come una palla sul mio asse orizzontale e verticale, radicato come una bambolina bu dao weng 不倒翁8. Aderisci, collegati, resta in contatto, segui l’avversario (zhan , lian , nian , sui ) e ‘Spingi la barca assecondando la corrente’9, sicché quando uno si muove, l’altro risponda in accordo”10.
Grazie alla sua esemplare sapienza, Hong Jun Sheng scrive ancora nell’articolo succitato: “Dal punto di vista del combattimento, siccome una rotazione può essere cambiata facilmente, a qualunque parte del mio corpo l’energia dell’aggressore si avvicini, posso girare leggermente nel suo stesso verso – facilitando la neutralizzazione e l’allontanamento dell’attacco da me. È questo l’yin jin luo kong richiesto dal tai ji quan. Quando girate, poiché vi muovete sfericamente, anche se questa metà del cerchio serve a neutralizzare, l’altra metà interviene col prosieguo della rotazione – formando naturalmente un cerchio che è metà neutralizzazione morbida e metà emissione dura di potenza. Se il moto [dell’aggressore] è lento, potete ruotare di un quarto di cerchio e raggiungere facilmente il risultato [di neutralizzare l’attacco]. Quando la vostra abilità è maggiore e la velocità del movimento più alta, potete compiere una rotazione lievissima e ottenere l’effetto di neutralizzare e colpire allo stesso tempo. Quindi il tai ji quan richiede che si passi da cerchi grandi a cerchi piccoli e da cerchi piccoli a nessun cerchio [evidente]. Cerchi grandi e cerchi piccoli sono la rotazione del vostro asse verticale [il rachide] coordinata con la rotazione [degli arti] a sinistra e a destra, in avanti e indietro”.
Se si vuole ottimizzare cotanto lavoro, e dunque il gong per risolvere il combattimento, bisogna condizionare tutte le diciotto articolazioni per poterne usufruire al meglio, in quanto rappresentano la chiave di volta, i punti focali per determinare l’abilità del praticante. Bisogna allinearle e coordinarle perfettamente, in modo che la catena cinetica consenta un movimento fluido dell’energia attraverso la struttura corporea.
Le articolazioni devono acquisire inoltre una capacità superiore di “aprirsi” e ruotare lungo vari piani, anche in direzioni opposte tra loro. L’allenamento – a partire da quello più basilare, lo zhan zhuang 站桩 – “mola” di continuo le articolazioni inducendole alternativamente a estendersi e compattarsi con gradi di tensione diversi, ma pressoché sempre con moto circolare e momento torcente.
Talvolta sono piccoli aggiustamenti, come nel caso dell’anca (kua ) e della cintura pelvica (yao dang 腰裆), centrali per la trasmissione della forza (tra l’altro facendola scorrere attraverso il corpo dalla terra o scaricandola in essa).
Grazie a questi esercizi in uno stato di rilassamento (da intendersi come l’uso minore possibile di forza per una determinata postura o mossa), si impara a localizzare sottili spostamenti articolari e attività muscolari trasformando tale percezione in abilità e vissuti motori automatizzati. Si dispongono le articolazioni in angoli che variano a seconda degli stimoli, favorendo il consueto progetto di adattamento.
Un’efficace modalità d’uso delle articolazioni inventata dai cinesi ha il soprannome di chan si jin 纏絲勁, una forza coordinata che muove tutto il corpo secondo spirali, da cui il paragone con l’avvolgere una matassa di seta (chan si): è un’allegoria letteraria degna tuttavia del mondo contadino, perché cita il movimento continuo e fluido attraverso il quale si fila la seta svolgendola con una trazione da un bozzolo senza spezzarla.
Il termine si è diffuso quando lo nominò Chen Xin 陳鑫, rappresentante della sedicesima generazione dello stile di tai ji quan che porta il nome della sua famiglia, nel suo libro del 1933 Chen shi tai ji quan tu shuo 陳式太極拳圖說 (“Spiegazione illustrata dello stile Chen di pugilato della suprema polarità”).
Per Huang Tai Ji, il moto a spirale (luo xuan yun dong 螺旋运动) va considerato “il principio più rilevante. Si manifesta coi distretti anatomici coinvolti che ruotano sul proprio asse e contemporaneamente descrivono un arco nello spazio. È proprio come la rivoluzione (gong zhuan 公轉) e la rotazione (zi zhuan 自轉) della Terra su se stessa e intorno al Sole; quindi rappresenta per l’uomo un microcosmo all’interno del macrocosmo”. Anche in questo, egli prosegue la linea dello stesso Chen Xin, che scrive: “Il pugilato della suprema polarità è il metodo dell’avvolgere la seta. […] La forza avvolgente (chan jin) è su tutto il corpo”.
Lo stesso Hong Jun Sheng sosteneva che “il tai ji quan è peng 11, e che il vero peng si ottiene con rotazioni lungo una traiettoria spiraliforme bidimensionale cui partecipa tutto il corpo.
L’energia a spirale, il cui vantaggio è la combinazione di una forza rotatoria con una diretta, serve a eludere o controllare un impulso in arrivo senza scontrarsi frontalmente con esso; al contrario, come illustrato sopra, si entra morbidamente in contatto con esso e lo si dissipa, re-indirizzando il moto dell’avversario a proprio vantaggio; il tutto grazie a un effetto penetrante nel suo corpo, che è lo stesso potere distruttivo dei colpi del tai ji Chen.
Hong modificò perfino la direzione dello sguardo nell’esecuzione delle sequenze dello stile a vantaggio di una forza torsionale maggiore: non più focalizzato sulla mano, bensì sull’avversario.
Parallelamente si otteneva anche un corpo più bilanciato, supportando un altro fattore imprescindibile: il mantenimento della linea di gravità corporea verticale (zhong ding 中定) e quindi del tronco eretto (zhong zheng 中正) in ogni circostanza, con movimenti di rotazione orizzontale intorno al perno del rachide per un massimo di quarantacinque gradi (oltre, favorirebbe un rischioso sbilanciamento).
La frase che, secondo il maestro Hong, usava Chen Fa Ke era: “Bu pian bu yi 不偏不倚, un’espressione che indica l’imparzialità, ma che tradotta letteralmente significa “Né inclinato, né appoggiato”. In tal modo, l’affondamento del peso lungo la linea di gravità permette di mantenere meglio l’equilibrio nelle tecniche di lotta.
Per la stessa ragione, è necessario evitare quello che nel tai ji quan è noto come “doppio peso” (shuang zhong 雙重), che qui significa non far gravare rigidamente la massa della parte alta del corpo e la massa di quella bassa sullo stesso lato. Lo prescrive anche una regola dello stile: “Quando il peso è a sinistra, la [mano] sinistra è vuota; quando il peso è a destra, la [mano] destra scompare” (“Zuo zhong ze zuo xu; you zhong ze you yao 左重则左虚右重则右?”). Gli spostamenti dei piedi si effettuano soltanto dopo che si è capito dov’è diretta l’energia dell’avversario e quindi si sa come sfruttarla.
Per tutto questo addestramento complicato, il tai ji quan offre didattiche particolarmente interessanti, prima fra tutte il cosiddetto tui shou 推手 (“mani che spingono”), che nella scuola Hong comprende ben quarantacinque forme (shi ). Qui, due compagni di allenamento confrontano in modo costruttivo e non cruento le reciproche capacità acquisite con gli esercizi a solo, applicando i propri stimoli al sistema altrui. Un esperto di tai ji può sballottare un opponente senza fargli male, benché la sua spinta potrebbe ben ferirlo.
Soprattutto, nella scuola in discussione l’insegnante passa molto tempo a praticare tui shou con l’allievo, come spiega Li Bao Ting nel suo corposo volume Hong shi tai ji quan 洪式太極拳: “Insieme a un bravo insegnante bisogna sperimentare e mettere alla prova le forze attraverso le mani che spingono. Il maestro esercita forza e crea le condizioni per permetterti di imparare attraverso la pratica ad assorbirla e trasformarla, sicché ti nutri di essa e la digerisci facendola tua (jiao wei jin 叫喂勁). Poi bisogna fare molti altri test insieme ai compagni di corso, ‘fratelli’ maggiori e minori (shi xiong di 师兄弟)12. Progressivamente si acquisisce la capacità di comprendere l’applicazione (yun yong 运用) delle forze del tai ji (tai ji jin 太极劲). […] Col potere di rispondere a qualunque cosa fa l’avversario nelle mani che spingono, tutto il corpo è come il pugno (zhuo shen shi quan 周身是拳) […], finché non si automatizza il movimento spiraliforme di livello eccelso, che è una forza nascosta all’interno. Sebbene il diktat sia fare in modo di non essere sconfitti, bisogna anche evitare di ferire l’avversario”.
Ebbene, la maggior parte delle scuole di tai ji quan si ferma proprio qui, dove invece la scuola Hong comincia a divertirsi: per essa, infatti, riveste grande importanza il san shou 散手 (letteralmente “mani sciolte”), l’applicazione libera delle singole tecniche di combattimento, che permette di raggiungere un livello superiore di reattività spontanea nelle risposte alle minacce avversarie.
Ancora una volta, questo è dunque un settore che viene allenato moltissimo, ed è qui che emergono in tutto il loro realismo le caratteristiche salienti del tai ji quan, ricordate da Huang stesso: “Sconfiggere la rigidità con la flessibilità, portare la calma nell’azione, annullare attacchi diretti usando movimenti circolari, fino a consentire al debole di vincere il forte”. Ciò giungerà, insieme alla vera maestria, come il primo raggio di sole che penetra l’oscurità di una gelida notte, come una testa di neonato che emerge al mondo dopo i travagli del parto. Allora non ci saranno più tecniche ben delineate, ma basteranno piccoli gesti pressoché subconsci e l’attaccante sarà scagliato in aria.
Certo non servirebbe a molto saper difendersi da minacce esterne quando la propria incolumità è aggredita da nemici interni, per cui il maestro Huang conclude specificando: “Il tai ji quan segue i principi della scienza medica, e agendo sui canali energetici dell’agopuntura, previene e cura varie patologie. Rinforza la costituzione fisica, riequilibra l’energia corporea, il sangue, le componenti nutrizionali e gli organi interni, irrobustisce i muscoli, i tendini e le ossa. Effetti benefici, finanche terapeutici, della pratica si sono riscontrati in caso di ipertensione e disturbi cardiaci, epatiti, artrite e artrosi, diabete, disturbi gastro-intestinali, dolori cervicali e lombari, nevrastenia. In più, l’allenamento del tai ji quan rafforza il carattere, esercita un’influenza positiva sulle emozioni e conferisce tranquillità, portando a sviluppare virtù morali e un comportamento retto. Per questo il tai ji quan non è solo uno stile di arti marziali, ma anche una via filosofica, una forma mentis”.
Già, con una presentazione del genere sembra difficile non innamorarsi del tai ji quan. Ma poiché si tratta di un amore esigente, chissà quanti saranno all’altezza degli insegnamenti del maestro Huang, che hanno già avuto successo tra i suoi conterranei. Molti suoi estimatori frequentano la comunità cattolica cinese di Milano, che l’ha coinvolto nelle sue numerose e meritorie opere di volontariato. Che meraviglia: un cinese che insegna a cinesi in Italia, ma che, al contrario di molti suoi connazionali più ignoranti, non è sfiorato dalla benché minima idea razzista e ha voglia di tenere lezioni agli europei.

1 Letteralmente “inchinarsi al maestro”.
2 La scienza che si occupa del comportamento di un corpo vivente quando sottoposto a forze.
3 In matematica, jie fa significa “soluzione”.
4 Un jin corrisponde a mezzo chilo, e poiché il numerale qian può indicare genericamente una grande quantità, l’espressione “qian jin千斤 significa pure qualcosa di molto pesante. Questa è la traduzione usuale, ma altri documenti, come il classico Da shou ge (“Canto delle mani che colpiscono”), riportano un ideogramma diverso: il jin che significa “oro” al posto di quello che significa “libbra”. Se aggiungiamo che liang indica, oltre all’unità di peso, la valuta d’argento nota come tael, la frase può essere tradotta con “Quattro tael spostano grandi somme d’oro”; una perifrasi che nel linguaggio dei mercanti cinesi poteva indicare la circonvenzione con cui si compra a poco prezzo per rivendere a molto.
5 Il vocabolo cinese usato, ting, è una sinestesia, poiché indica l’attività uditiva in luogo di quella tattile.
6 Soprattutto delle mani, ma anche di altre zone del corpo, avvantaggiate dalla presenza di neuroni C.
7 Hua ha anche il significato di “trasformare”, e in questo senso è accompagnato dall’“afferrare” (na) la forza altrui per sfruttarla a proprio favore. Lo descrive poeticamente il Tai ji quan lun (“Trattato sul pugilato della suprema polarità”), anch’esso attribuito a Wang Zong Yue: il corpo è tanto sensibile che perfino una piuma sarà avvertita, è tanto adattabile che una mosca non può decollare da esso senza indurlo al moto.
8 La bu dao weng, cioè “il vecchio che non cade”, è un pupazzo che avendo il baricentro alla base e il resto cavo, non si rovescia, ma si inclina sotto la spinta e poi torna dritto.
9Shun shui tui zhou 顺水推舟è un proverbio, che veicola l’idea di sfruttare un’opportunità per raggiungere il proprio scopo. Già nei più vetusti manuali di strategia bellica (bing fa 兵法) come il Sun Zi viene sottolineata l’importanza di “cogliere l’opportunità e il vantaggio tattico (“de ji de shi 得機得適).
10 Un’altra esortazione celebre: “Bi zou ci ying 彼走此应, letteralmente “Cedere qui e rispondere lì”.
11 Fin dai tempi antichi, le forze basilari del tai ji quan sono raggruppate in otto tipologie d’azione, dette ba fa 八法 (“otto tecniche”) o ba men 八門 (“otto porte”): peng 掤, , ji , an , cai , lie , zhou , kao . La più importante e ovunque soggiacente è la prima, che il maestro Huang rende con “sorreggere”.
12 Si definiscono così, ricalcando la struttura familiare, i compagni di pratica più o meno esperti. 


Pubblicato sulla rivista Samurai del giugno 2010
Per gentile concessione dell’autore 
Copyright © Wang Yugyal

 Il san shou del maestro Li Bao Ting

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